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Ancora su Santapaola, informazione e Ciancio

venerdì 28 novembre 2008

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[...] Catania ai tempi di Santapaola era una piccola repubblica autonoma
con leggi, strumenti di informazione e tribunali propri e particolarissimi.
I mafiosi non sono tutti uguali. I famigerati corleonesi erano e sono
rimasti contadini sanguinari, che riassumono il loro progetto politico in
una sola frase che tramandano di padre in figlio: “rompere le corna allo
Stato”. Sono stati cancellati dal loro delirio di onnipotenza, dal desiderio
di determinare il destino dell’Italia, di controllare tutti gli appalti
dell’isola ed il traffico internazionale degli stupefacenti pur vivendo
come topi nelle masserie del palermitano, cibandosi di ricotta e cicoria.
Santapaola no.

Pur nascendo a San Cristoforo, quartiere degradato ma
in pieno centro, Santapaola inventa la mafia catanese, non proviene da
famiglie mafiose e non ha tradizioni particolari da consolidare.
Unisce modi relativamente signorili alla ferocia del delinquente, capace
di far strangolare dei ragazzini rei di aver scippato la madre. Frequenta
deputati e sindaci, funzionari ed imprenditori. È imprenditore lui stesso,
e non solo del crimine: gestisce una concessionaria Renault, mentre
la moglie è titolare di una cartoleria del centro. Gioca a carte e scrive in
corretto italiano, quanto basta per allontanarlo dal solito cliché del mafioso
rozzo. Ci sono fotografie di Santapaola col sindaco e col presidente
della provincia, col consigliere comunale e col deputato socialdemocratico.

È il perno di un sistema politico-economico sanguinario ma a suo modo
efficiente. Grandi palazzi e colate di cemento, viadotti e banche, televisioni
ed imprese. Catania è un caso unico, un modello per alcuni, un
concentrato di sangue e violenza per altri.
Storicamente, la borghesia siciliana ha concepito la mafia come quei
cani ferocissimi ma utili per difendere la proprietà, intimorire i sottoposti,
annientare i comunisti o aggirare le regole garantendosi un appalto.
[...]
Fatte queste premesse è possibile comprendere l’articolato rapporto tra
i giornali siciliani e la mafia, non riducibile alla solita indistinta mafiosità
degli isolani.
Dopo la stagione della grandi stragi, parte della magistratura sembra
intenzionata ad intaccare un sistema che fino a quel momento era apparso
perfetto, indistruttibile. Nella prima metà degli anni ’90 si scatena una dura campagna contro giudici e pentiti, che del resto
non si è mai interrotta ed ha coinvolto tanti media nazionali.
A volte sono commenti legittimi seppure opinabili, a volte
forse qualcosa di più. Nel 1995 il collaboratore Vincenzo Scarantino
inizia a parlare della strage di Via D’Amelio alla Procura
diretta da Caselli. La moglie aveva accusato la questura di
aver estorto la confessione con la tortura, le donne della famiglia
sono arrivate ad incatenarsi di fronte al Palazzo di Giustizia.
Puntutali arrivano altre voci, tutte smentite dai magistrati:
“Alla larga dai pentiti […] A Palermo sostengono che
[Scarantino] abbia voluto alzare il prezzo con lo Stato perché la
famiglia ha bisogno di una nuova abitazione. Se fossimo al
ministero di Grazia e Giustizia ci metteremmo dentro la famiglia
Scarantino e butteremmo via la chiave. Senza pentirci”

La libertà
I giornali siciliani sono gestiti con una mentalità che deriva
direttamente dalla tradizione feudale. Un padre padrone, la
successione ereditaria, casate di tradizione secolare – i Ciancio
Sanfilippo a Catania, gli Ardizzone a Palermo -, direttori che
dirigono ma non esercitano, cioè non scrivono, perché si sentirebbero
come i latifondisti messi a zappare la terra, redazioni
sotto controllo ed una isola rigidamente divisa nelle tre zone
d’influenza dei monopoli.

Il direttore/editore de “La Sicilia” ribatte alle “azioni di disturbo”
abbinando ad un silenzio glaciale la calma di chi sa di essere
il più forte. Il direttore della “Gazzetta del Sud” di Messina
persegue dal 1968, anno fatale da cui è in carica, una scientifica
strategia, ovvero la querela in sede civile usata come arma contro
chiunque osi criticare lui e/o il suo giornale.

Un saggio come quello che avete appena letto, pur basandosi su fatti veri ed inoppugnabili, potrebbe essere accusato di
“maliziosi accostamenti”, “sintesi scorretta”, “subdole estrapolazioni”.
Un magistrato non indipendente – ce ne sono tanti - potrebbe
abbozzare un atto esordendo: “Effettivamente…”. L’autore
dell’articolo, oberato da spese insostenibili e dalla prospettiva
di un iter giudiziario pluridecennale, potrebbe aver voglia di
scrivere “non più che le previsioni del tempo” (Giuseppe Fava).
Per poi magari incontrare qualche amico del Nord che gli chiede:
ma da voi perché nessuno si ribella?


Pubblicato su veritàegiustizia N°19, newsletter di approfondimento di Libera Informazione


Sull’argomento vedi anche Un Santapaola qualunque, Sinistra Democratica: quotidiano La Sicilia, comportamento vergognoso, Santapaola su LaSicilia: Addiopizzo esprime rammarico e preoccupazione




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